martedì 6 dicembre 2011
Marco Olmo, IL CORRIDORE
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L'autore dell'articolo è Davide Rossi, la fotografia è di Dino Bonelli
Se fosse una squadra di calcio sarebbe l’Islanda che vince i mondiali battendo con un secco 2-0 il Brasile; se fosse un tennista sarebbe una wildcard che vince Wimbledon eliminando in tre set Djokovic o Nadal. Invece è “solo” un ultramaratoneta e ha vinto per due volte la più importante gara di quella disciplina alle soglie dei 60 anni, correndo contro atleti che avrebbero potuto essere i suoi figli.
E' Marco Olmo, maratoneta albese di nascita ma trapiantato a Robilante, che ha fatto della corsa in montagna la sua professione dopo una vita trascorsa tra lavori faticosi, come il boscaiolo, l’autista di TIR e il movimentatore di carichi nelle cave della Buzzi Unicem.
La sua è una delle storie sportive più interessanti, incredibili ed emozionanti che possa capitare d’incontrare: mentre in Italia – come vuole il vecchio detto latino “nemo propheta in patria” – è ancora un personaggio poco conosciuto, nel resto del mondo, e in Francia soprattutto, è un vero mito vivente.
Non potrebbe essere diversamente, visti suoi straordinari risultati sportivi: dal 1996 – quando aveva quarantotto anni – ad oggi ha ottenuto tre podii alla Marathon des Sables, tre primi posti alla Desert Marathon, ha vinto sei Raid Cro-Magnon e quattro Desert Cup consecutive diventando uno degli specialisti di quelle gare che gli esperti chiamano ultratrail e che, con le loro tappe da 50 e più km, fanno apparire le maratone dei semplici allenamenti o poco più.
Nel 2005, a 57 anni, ha corso per la prima volta l’Ultra Trail del Monte Bianco: la chiamano “la corsa di tutti i superlativi” e sul loro materiale promozionale scrivono che è la gara “che ogni corridore di trail sogna di finire, almeno una volta in vita sua”. Finirla significa tagliarne il traguardo: una cosa non scontata, quando il percorso è di 166km, con 9500m di dislivello positivo da correre consecutivamente, senza tappe. Marco non solo l’ha finita, ma è arrivato terzo. Avrebbe potuto essere già un ottimo risultato, ma non sarebbe stato un risultato da ricordare: così l’anno successivo Marco è tornato e quella gara l’ha vinta, contro ogni pronostico. Questo sarebbe stato un risultato da ricordare, ma non sarebbe diventata leggenda: così l’anno successivo ancora, il 2007, Marco è tornato per difendere il titolo conquistato l‘anno prima. Avevano scritto che erano mancati tutti i migliori, nell’edizione precedente, e per questo aveva vinto un outsider sconosciuto. Anche con tutti gli atleti più accreditati schierati alla partenza, Marco ha vinto per la seconda volta consecutiva il campionato del mondo delle ultramaratone: da quel momento per lui è iniziata la celebrità a livello mondiale.
Così, oltre ai primati sportivi si sono aggiunti anche quelli del nuovo mondo virtuale di Internet: Marco ha raggiunto e superato i 5000 amici su Facebook, la prova moderna dell’interesse suscitato nei confronti del pubblico. A ulteriore riprova di ciò stanno il libro e il film che gli sono stati dedicati: Correre è un po’ come volare, di Franco Faggiani e Il corridore, di Paolo Casalis e Stefano Scarafia sono testimonianze emozionanti di ciò che è l’universo di Marco Olmo. Un universo composto in grande parte da altri atleti o amatori della corsa, ma che riserva la sorpresa di contenere al suo interno anche chi con la corsa e lo sport in generale ha poco a che spartire ma che vede in lui un esempio a livello più ampio.
In quest’anno ho avuto modo di frequentarlo e di seguirne alcune delle sue attività sportive: cercavo l’atleta e ho scoperto l’uomo. Ho capito che Marco non ha avuto una vita facile: lui stesso si è definito spesso un vinto, ha detto che corre per rivincita, per vendetta nei confronti di una vita che non gli ha dato molto. Eppure, a guardarlo in faccia, questa cattiveria che emerge delle parole non si nota per niente. Si notano invece gli occhi sinceri di un uomo onesto, il sorriso schietto di un montanaro che ha avuto sì una vita difficile ma l’ha affrontata sempre a testa alta. Ma se davvero è così, se davvero ha corso per vendetta, allora la sua rivincita Marco l’ha avuta, con i risultati ottenuti ma soprattutto con l’ammirazione sconfinata che il pubblico gli concede, conquistato certamente dai risultati ma capace anche di andare oltre e di percepire la persona che sta dietro al professionista. Solo uno come lui, ad esempio, avrebbe potuto dire, alla vigilia di una gara organizzata su un sentiero usato una volta da minatori che scavavano la montagna per estrarne metallo, “in questa gara mi sentirò più minatore che atleta”, ricordando il suo passato in cava.
Marco è così, con la sua semplicità e la sua schiettezza che lo rendono un personaggio immediatamente vicino al prossimo, mai sostenuto. E così non esiste sportivo che fa della corsa la sua attività che non ne abbia sentito parlare o che non abbia avuto il sogno di correre con lui o contro di lui, ma solo contro il cronometro, mai contro la persona.
E poi, si dice spesso che dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna: è così anche in questo caso, perché Marco è seguito passo dopo passo, spronato, aiutato ad andare avanti nella sua attività faticosa dalla moglie Renata: donna che ne ha condiviso, si potrebbe dire bonariamente sopportato e talvolta incentivato, le passioni, le scelte e tutto ciò che esse comportano, difficoltà comprese.
La domanda che spesso mi sono posto, in questi mesi, è dove voglia ancora arrivare questo atleta, dove colga le motivazioni chi come lui ha corso e vinto così tanto: poi Marco mi ha detto che la corsa è un po’ come una medicina, una specie di arte marziale da continuare a praticare anche indipendentemente dai risultati e allora ho capito che non corre per cercare vendette o rivincite: semplicemente lui corre perché è così che sta bene. Non si è fermato neppure quest’estate, pur avendo una costola rotta, e non è un caso che poche settimane fa abbia corso una gara proprio il giorno del suo compleanno: ha detto che preferiva spegnere chilometri piuttosto che candeline…
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